Sala 5 - Palazzo della Cultura di Apricena

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Sala | 5

Donna che si gira
«Le sculture di Vangi, soprattutto in marmo (di Carrara o onice messicano), travertino, pietra di Coreno, di Apricena (come quelle di Pesaro, San Giovanni Rotondo e Seoul, quali Agorà del 2008 Contemplazione del2011), in pietra di Vratza, in granito Salisbury, in bronzo, contrassegnano il percorso di molte piazze del mondo,oltre che chiese, luoghi istituzionali e ovviamente musei e prestigiose collezioni private.
La dimensione pubblica della sua opera fa parte integrante dell’ambizione di ogni scultore nel proseguire quanto illustri antenati hanno fatto prima di lui (e Vangi, nato vicino Firenze, non può essere stato estraneo alla visione ravvicinata dei capolavori di Donatello, Brunelleschi, Michelangelo, Danti, Ammannati, Cellini, Giambologna) disseminate nelle piazze, nelle chiese e nei musei della capitale del Rinascimento italiano. Ma pubblico è spesso anche il contenuto di opere che parlano della figura umana del nostro tempo, secondo un realismo che non è mai illustrazione ma immersione nei meccanismi anche psicologici della nostra epoca. Lo ha scritto senza mezzi termini Enrico Crispolti: “Vangi è uno dei maggiori scultori europei operanti fra la seconda metà del XX secolo e questo inizio di XXI. Come Francis Bacon, fra gli anni quaranta e cinquanta, contro ogni prospettiva di affermazione dell’astrazione come futuro, ha riaperto la possibilità di figurare pittoricamente un’immagine nuova dell’uomo del nostro tempo nella realtà della propria drammatica contingenza esistenziale, così Giuliano Vangi, dagli anni sessanta, attraverso un’acutezza propositiva plastica del tutto nuova, ha originalmente e genialmente riscattato alla scultura del nostro tempo, praticandola in tutta la ricchezza dei suoi attributi tradizionali, un ruolo di centralità archetipica dell’immagine umana, rinnovando inaspettatamente quanto criticamente una remota ascendenza umanistica”. Questa dimensione pubblica è un voler e dover comunicare ad ampio raggio, anche dovendo creare monumenti non celebrativi né meramente commemorativi, ma di condivisione dell’esperienza umana, del dolore, della sofferenza, della catastrofe, come avviene nelle sculture dedicate alla strage nazista di Stazzema, alle vittime del ciclone Katrina. Né possiamo dimenticare a questo proposito i suoi numerosi interventi presso chiese sotto forma di amboni, crocifissi, altari, cattedre (Duomo di Padova, di Pisa, di Arezzo, Chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, a Seriate, oppure a San Paolo del Brasile): insomma un parlare ecumenico a tutto tondo, laico e spirituale.
Dunque la dimensione pubblica (di collocazione o di espressione) è forse la dimensione che più si addice alla scultura di Vangi, anche quando fosse relegata in uno spazio interno. Eppure la dimensione pubblica della strada, che di fatto si trova in mezzo al fluire del pubblico, del popolo inteso come massa di individui appartenenti a un idioma linguistico, sociale, politico, culturale di un territorio, di una regione, di una provincia, di una città, questa dimensione diventa in Vangi primaria, una vera e propria testimonianza del suo lavoro e ogni volta punto di incontro, di scontro, di confronto con chi la deve partecipare, subire, apprezzare, criticare, amare, diventarne familiare.
Ogni scultore che colloca la sua opera nel mezzo di una via o di una piazza pubblica dovrebbe avere l’umiltà (tanto più uno scultore che è fiorentino) di ricordare un fatto accaduto secoli fa. Ce lo ricorda proprio il grande scultore-orefice Benvenuto Cellini, che nel 1554 collocò il Perseo proprio sotto la Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria, il quale scrisse nella sua autobiografia che Cosimo I de’ Medici, suo committente e Granduca di Firenze, si rivolse a lui in tal modo: “Con tutto che questa opera ci paia molto bella, ell’ha anche a piacere ai popoli: sì che, Benvenuto mio, innanzi che tu gli dia la ultima sua fine io vorrei che per amor mio tu aprissi un poco questa parte dinanzi, per un mezzo giorno, alla mia Piazza, per vedere quel che ne dice ‘l popolo”. Tra i tanti che affissero biglietti di commento sul Perseo, molto positivi, ci furono Pontormo e Bronzino. Il successo fu assicurato e la statua fu inaugurata ufficialmente.
Potremmo chiederci se sia necessario in un’opera d’arte contemporanea sollevare aspre critiche o appassionati plausi, ma di certo queste eventualità ne certificano una vitalità che ci riporta indietro nel tempo, quando lo scoprimento del Perseo di Cellini a Firenze veniva salutato come un evento civico e collettivo.
L’opera di Vangi realizzata per Apricena (Donna che si gira) è un’evocativa e lontana rivisitazione della Dafne in marmo di Bernini, trasformata in albero di alloro per sfuggire al Dio Apollo. Le figure e l’albero di alloro di Vangi, di cui intravediamo dei volti e la sommità del fusto e del fogliame, sono già fuse con la pietra, sono già pietra, anzi sembrano che non siano stato altro da sempre, che siano nate come pietra. Senza raccontare ma esaltando il fatto, il mito, l’evento a scultura pura, Vangi realizza un monumento privo di retorica, fatto di puro stile, di forme essenziali, di figure perfette, simbolo della sua stessa opera, icone di una scultura che ha saputo creare icone che hanno attraversato, ognuna con la sua singolarità, la storia dell’arte italiana ed internazionale
negli ultimi cinquanta anni».
Marco Tonelli, Giuliano Vangi, in «SCULTURE IN CORSO/Museo Madrepietra Apricena - Corso Roma», Centro Grafico S.r.l., Foggia, 2020, pp. 19-20.

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Soffioscultura
 
«Molta parte dell’arte contemporanea, assolutamente chiusa in se stessa, non cerca il dialogo con il mondo esterno, è misantropa. L’artista, ermetico nella sua ricerca linguistica, non si preoccupa di stabilire un contatto con la realtà circostante. Troppe cose sono accadute negli ultimi decenni. È un’epoca, questa, di contrasti violenti, di scontri esasperati ed esasperanti e di barbarie. Se è vero che l’arte è espressione dell’uomo e delle sue contraddizioni e l’artista ne è il filtro, sarebbe ora che uscisse dal suo autismo e ricominciasse a guardarsi intorno e a esprimere ciò che respira, che sente, che tocca con mano”.
 
Se si inizia da parole che esprimono il pensiero dello stesso Francesco Granito sull’arte contemporanea, è perché sono parole che idealmente preparano e rendono trasparente il suo stato d’animo verso l’approccio della scultura che deve essere condivisa e che deve entrare in relazione con la realtà circostante. E l’opera pensata per Apricena questo presupposto lo ha nel suo DNA essendo scultura pensata, concepita, realizzata, scolpita proprio per far parte integrante di uno spazio cittadino, quotidiano e di normali commerci umani. Che Granito abbia scelto di rappresentare una grande piuma non è casuale, fa parte di quella tipologia ossimorica della sua opera, cioè di unione di due elementi che si contraddicono l’un l’altro ma che in un modo o nell’altro stanno insieme, in equilibrio: una piuma è soggetta al più impercettibile spostamento d’aria, ma questa in pietra di Apricena non si muoverà di un millimetro.
Alcune opere di Granito non a caso si intitolano Scultura di vento e rappresentano carta, tendine, che sembrano mosse appunto dal vento. E anche la stessa piuma ha fatto la sua comparsa, molto più piccola, in un’opera composta da una mano da cui volavano alcune leggerissime piume. Ma la piuma è stata anche immortalata (in gesso stavolta) in un elemento di circa 180 cm di lunghezza in un’altra opera dal medesimo titolo.
Granito ha scolpito la pioggia, i merletti traforati di tovaglie di marmo di Carrara o terracotta, perfino aeroplanini di carta (sempre però in marmo come nella serie (Ti lancio un pensiero) o castelli di carte in legno sul punto di cadere (Equilibrio squilibrio). Insomma una ricerca che ha puntato sempre sul confine tra l’essere e il non esserci più.
Ma la piuma è iconografia che viene da lontano per lui, dalle ali di Icaro di cui tra anni Ottanta e Novanta ha realizzato dei veri e propri frammenti in gesso, come si trattasse del ritrovamento delle ali del figlio di Dedalo che aveva osato volare troppo in alto, troppo vicino al Sole, vedendosi le ali progettate dal mitico architetto creatore del labirinto del Minotauro (appunto il padre Dedalo) sciogliersi, finendo per cadere in acqua e morire.
Granito con la sua opera di Apricena sfida ancora una volta gravità e immaginazione, rende pesante ciò che è leggero e leggero ciò che è pesante, in un’opera di virtuosismo che non è fatta per stupire il pubblico, piuttosto per introdurre la meraviglia e la curiosità nel quotidiano fluire dei giorni e degli anni di una città.
L’incertezza del nostro tempo, le sue instabilità, le sue quotidiane e continuative precarietà, nella scultura di Apricena sono come ristabilite, risanate, nel senso che la piuma sarà anche simbolo di quanto più di leggero, instabile, volubile ci sia, ma lo è senza drammi, senza traumi esistenziali. In fondo la funzione dell’arte urbana è essa stessa un pendolo che può ugualmente oscillare tra le lacerazioni violente e minacciose di sculture che il critico inglese Herbert Read definì negli anni Sessanta “della paura”, poco adatte a risvegliare incubi della storia o ricordare ferite e traumi, e quelle più liriche e ottimisticamente riparatorie di artisti come Granito, che non propone incidenti né intimidazioni ma evasioni, sogni ad occhi aperti, in una sospensione quasi surreale e magica.
 
La piuma di questa opera (Soffioscultura) sarà allora emblema del nostro tempo, della complessità di un omento storico in cui veramente ormai il battito d’ali d’una farfalla può espandersi fino a provocare cicloni, ma è anche un emblema di fiducia, di alleggerimento del peso naturale della pietra, una visione irreale nel centro di una città, una sfida alla gravità, al principio di realtà, uno stimolo a pensare diversamente le difficoltà del quotidiano e della contemporaneità. Un gesto quindi di ottimismo, di libertà, una sfida riuscita vero la materia complice nonostante la sua gravità di questo miracolo di leggerezza. Un gesto però soprattutto umano, perché come afferma lo stesso artista “alla prepotenza del freddo linguaggio tecnologico e digitale, fine a se stesso, oggi oppongo il calore comunicativo della manualità».
Marco Tonelli, Francesco Granito, in «SCULTURE IN CORSO/Museo Madrepietra Apricena - Corso Roma», Centro Grafico S.r.l., Foggia, 2020, pp. 65-66.

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