Sala | 3
Dalle
cave all’architettura
«Sarebbe impossibile
richiudere in una sola definizione la figura di Ugo La Pietra, che nel caso della
pietra di Apricena porta nel cognome un destino!
Destino che lo vede e lo ha visto per decenni lavorare
con l‘alabastro di Volterra, il marmo di Carrara o di Verona, il granito di
Bretagna o dell’Adamello, la ceramica di Caltagirone, di Albisola, di Vietri
sul mare, di Faenza, di Montelupo, di Sesto Fiorentino, di Grottaglie, di
Castellamonte, di Nove, di Deruta, l’oro di Arezzo, il bucchero umbro, il vetro
di Murano, il legno dei mobili di Cantù, di Saluzzo, la pietra di Nanto, di
Lecce, il mosaico di Monreale e via dicendo.
Non si tratta di una lista della spesa fine a se stessa,
ma di una mappatura geografica, mediterranea e globale nel vero senso della
parola, in nome di quella “tradizione rinnovata”, del genius loci, della
nuova territorialità, che sono le vene sostanziali della ricerca di La Pietra.
Lui stesso lo ha teorizzato tra 1980 e 2011, coniando
appunto il termine “design territoriale”, scrivendone così: “Fin dagli anni
Sessanta ci eravamo posti il problema di come cercare di superare
“l’architettura e il design internazionalista” (quelli, per intenderci, che
progettavano case, alberghi, edifici vari con gli stessi valori formali e
distributivi a Francoforte come a Palermo o a Il Cairo). Volevamo che si
potesse guardare con più attenzione alle risorse dei vari territori, alla loro
natura, alla cultura, ai comportamenti sociali… Posso dire che già in quel lontano
decennio nacquero i primi sentimenti, le prime formulazioni di un design
territoriale.
Le opere che ho realizzato quindi già dagli anni
Sessanta e poi nei decenni successivi, il design mediterraneo, quello balneare
e quello legato ai diversi territori alludono di fatto ad una società dove la
differenza è riconosciuta come un diritto e come una normalità. La ricerca
della differenza (nella normalità) mi ha portato a lavorare in diverse aree e
territori dove ancora esistono autonomie culturali”. Dalle cave
all’architettura è il titolo della scultura realizzata per Apricena (la sua
prima volta ad Apricena e con questa pietra), che si pone in tal senso
esattamente nella linea della territorialità del pensiero e dell’opera di La
Pietra: un’occasione, una commissione cercata e chiamata senza averla dovuta
richiedere.
Ecco lo specifico culturale che l’artista si è
ritagliato, caso direi unico in Italia e tra i pochissimi nel panorama internazionale,
in modo così preciso, esatto, progettuale e colto, pur nella sua immediatezza
sociologica, urbana, architettonica e funzionale.
Possiamo a maggior ragione utilizzare quanto l’artista
ha dichiarato a riguardo, niente sarebbe del resto più conforme a quanto da lui
progettato e fatto realizzare: “L’opera, collocata nel centro storico di
Apricena, allude alle risorse storiche di questo territorio: “la pietra di
Apricena”, cavata nei dintorni della città, ha caratterizzato nei secoli
l’architettura, da quella più nobile e autorevole (i castelli), a quella più
povera delle residenze di artigiani e contadini. Le grandi colonne hanno la
base scalpellata, che allude alla fase di estrazione della pietra dalla cava, e
vengono poi levigate nella parte superiore, alludendo alla capacità di
trasformazione del materiale grazie al lavoro degli artigiani; alla sommità
poggiano micro-architetture a disegnare un paesaggio.
L’opera esprime il concetto, che ho più volte esposto e
rappresentato nei miei scritti, studi e realizzazioni, di un’arte territoriale,
capace di partire dalle risorse del territorio per dare identità al luogo in
cui viene collocata e a cui appartiene».
Marco Tonelli, Ugo
La Pietra, in «SCULTURE IN CORSO/Museo Madrepietra Apricena - Corso Roma»,
Centro Grafico S.r.l., Foggia, 2020, pp. 41-42.
Chrysalys
«Rispetto alle ferite organiche, agli squarci della
materia, anche e soprattutto intesa come monumento pubblico, che realizzò lo
scultore Francesco Somaini negli anni Settanta, con l’intenzione di riportare
la coscienza addormentata da meccanismi consumistici e spersonalizzanti a uno
stato vigile e di all’erta, di urgenza, le opere di Cristian Biasci sono
vere e proprie elegie, racconti organici in perfetto equilibrio con la natura e
l’espressione umana. Non a caso la scultura pensata per Apricena si intitola Chrysalys,
cioè uno sviluppo, una crescita che richiede il proprio tempo, una nascita che
è subito trasformazione, elevazione, sublimazione, metamorfosi in una forma di
vita superiore.
Nell’opera Chrysalys non si vuole però descrivere
il processo di questa nascita e rinascita, ma è la pietra stessa che si fa
crisalide di sé, come da essa non uscisse altro che una dimensione viva e quasi
umana della materia. Scultura inconscia quella di Biasci, non naturalistica,
semisimbolica, quasi onirica, la materia diventa liquida, la pietra morbida,
gli spigoli del blocco si squagliano come cera.
Sensualità che ricorda forse quella di Auguste Rodin,
resa ancor più astratto di quanto non fosse riuscite a fare il grande scultore
francese, scultore di nudi, di abbracci, di sinuosità, di curve femminili, di
eros. Niente di meglio che riportare alcune riflessioni dello stesso Biasci
sulla scultura realizzata per Apricena per capirne le implicazioni sotterranee,
tutte però alla luce del sole: “La plasticità di Chrysalys rimanda
immediatamente ad un senso di liquidità che contrasta fortemente con la solidità
e l’imponenza della pietra anima del luogo che la ospita. Quel luogo non è
stato percepito come una strada del centro cittadino in senso tradizionale, bensì
come spazio da identificare come punto essenziale del tessuto urbano da
interpretare in maniera forte tanto da modificarne lo stato delle percezioni.
Il segno di umanità del quale non si può privare il
mondo è il segno dell’arte, l’unico immateriale tra i segni, inguainati nel
loro essere manifestati, quello che per me, grazie alla materia da forma alla
realtà e alla coscienza.
Nella dinamicità di Chrysalys sta la volontà di
restringere i momenti, di comprimere il tempo, segnando una somiglianza tra il
presente e il passato, tra un presente che è attuale e un passato che è stato
presente. Il carattere antimonumentale delle forme diventa il segnale del
cambiamento: la loro origine, quasi antropomorfa, si carica di tensioni
accompagnando il senso di precarietà e instabilità propria dei processi di
mutazione”. Nella parola antimonumentale del resto è contenuto gran parte del
senso stesso della ricerca di Biasci, che è di fatto anche autore di veri e
propri monumenti. Da quello al principe Albert II di Bruxelles, a quello
dedicato a Falcone e Borsellino di Foggia, città in cui ha in progetto un altro
monumento ambizioso e coinvolgente. Ma
i suoi monumenti non descrivono né celebrano, sfidano la
retorica e cercano di aprire possibilità di relazione e dialogo con o spazio
civico, con il pubblico. Una tendenza che in Biasci proviene e si esalta in
quella parte di attività e ricerca dedicata al teatro ed alla scenografia. È
qui che innumerevoli sono i suoi interventi, ben più consistenti di mostre
personali e collettive. La scultura di scena è del resto quanto di più effimero
possa esserci ma anche di più utilizzato e vivo, che non deve essere solo
guardato, ma utilizzato e far parte integrante di un contesto, per quanto
fittizio, artefatto e creato per un palcoscenico. Ma del resto non è l’arte
stessa, la pittura, la scultura, il cinema, una grande finzione, un’invenzione
di qualcosa che non esiste se non nel momento in cui si accetta di mettercisi
in relazione?
Ecco dunque che la scultura pubblica per Biasci è una
sorta di esaltazione e evidenziazione di quella teatrale, che tendiamo a
chiamare scenografia ma che se fatta da uno scultore è a tutti gli effetti
scultura. Le scenografie progettate e realizzate da Biasci per spettacoli e
messe in scene di testi di William Shakespeare (Sogno di una notte di mezza
estate e Romeo e Giulietta), di Eschilo (Le Eumenidi), di
Samuel Beckett (Giorni felici), oppure ancor più le sue scenografie per
l’opera (dalla Traviata o i Pagliacci nel 2007 alla Tosca nel
2008, dal Rigoletto alla Bohème nel 2011, fino al Giove a
Pompei di Umberto Giordano nel 2017), ci dicono di un percorso spettacolare
parallelo, complementare e integrato alla scultura. Come se questa altro non
fosse che il segreto di quella, come se la scultura sensuale e morbida di Chrysalys
appunto non fosse che l’aspetto segreto, intimo, confessionale della scultura
pensata per la scenografia, come il respiro rispetto alla voce.
Tale respiro, quasi un bisbiglio, che diventa un totem
di pietra nel mezzo di un corso cittadino, ci chiede dunque di metterci nelle
condizioni di ascoltare, di dialogare, di scoprire e partecipare a un mistero,
piuttosto che soltanto di passare e guardare. Non solo spettatori ma
partecipanti emotivi!».
Marco Tonelli, Cristian
Biasci, in «SCULTURE IN CORSO/Museo Madrepietra Apricena - Corso Roma»,
Centro Grafico S.r.l., Foggia, 2020, pp. 87-88.
Tra i
reperti presenti nella Mediateca Federiciana- Museo Civico è presente una meridiana,
proveniente dal Praetorium Publilianum
(proprietà che conserva nell’aggettivo il nome del primo proprietario,
verosimilmente L. Publilius Patruinus), di tipo conico, risalente al II secolo
dopo Cristo, e delle stele e cippi funerari con epigrafi dell’età imperiale,
insieme a monete e vasellame.
Nella
sala della meridiana sono presenti , inoltre, numerosi vasi facenti parte di un
corredo tombale.